Ekin Fil
Maps
LP HMS 048


Ondarock
August 2018

Gli esordi incerti della chitarrista, cantante e sperimentatrice elettronica di Ekin Fil, nome d’arte di Ekin Üzeltüzenci, nativa di Istanbul, si precisano a partire da una serie di uscite corte e medie. La carriera maggiore e più consapevole attacca con l’Ep “Reds” (2014), insolitamente forte e rumoroso, una Nico supportata dal Lou Reed della “Metal Machine Music” anziché da John Cale, per poi livellarsi con “A Moon Heart” (2014), “Wind Is Near” (2014), il singolo “Believers/Here Before” (2015), “Heavy” (2016) e “Being Near” (2016). Sono tutti lavori melanconici e avvolgenti, sicuramente debitori del cantautorato etereo di Edith Frost (e, più di recente, di Tiny Vipers e in parte Julianna Barwick), ma portati a un livello d’intensità di riverbero chitarristico del tutto personale; Üzeltüzenci non si cura di far sperdere del tutto o quasi il canto, di mutare le parole in segni senza identità semantica.

A partire da “Ghosts Inside” (2017) la cantautrice comincia a sperimentare anche con pianoforte e tastiere, che poi dominano in “Maps”, uno dei suoi lavori più equilibrati e meditati, e in un certo senso il vero e proprio debutto su lunga distanza. Il piano regge praticamente da solo la canzone eponima, e sono brividi: l’attacco è degno di una sonata tardoromantica, il canto è ridotto a un sibilo distante, i rumori concreti disturbano senza posa. Analogamente, “Bloody Sunday” è una breve toccata Schumann-iana scortata da un fantasma elettronico. “His Own”, una specie di lentissima barcarolle, rischiara appena le nubi mentre dissolve le note in semplici soffi. Questi brani portano ad alti livelli la musica glitch. E “Away” tenta addirittura di calamitare nel tempo il suo clima retrò, come un cristallo ottocentesco in un liquido amniotico, poi arroventato da un cumulo di distorsioni.

Il fascino della sua arte sta ben più nel processo che nella sostanza del risultato finale, perciò Üzeltüzenci si trova costretta a ricorrere anche a modelli noti, perdendo inevitabilmente in magia: una “Nocturnal Arc” che azzarda persino una ballata, o una romanza, una “Not Me” che riecheggia (in tutti i sensi: è una canzone-eco) la Lisa Germano più liederistica, fino a raccogliersi nell’inno filiforme di “Insomnia” su cui risuona persino l’ultimissimo e più inudibile palpito del folk-rock della Baia. Tutto in ogni caso converge, letteralmente, nei nove minuti di “At Dawn”. Il canto e quel che rimaneva della parola, i riverberi e le distorsioni, il pianoforte e le tastiere, i rumori concreti, sono filtrati e rifratti in una sorta di suono-veglia continuamente risuonante.

In quest’ennesima opera sulle escavazioni armoniche più evanescenti, sul silenzio e l’assenza – composta nell’isola di Marmara al riparo dai rumori della metropoli – la tensione stilistica s’incrina e s’inclina talvolta verso la maniera, ma conta almeno tre pagine memorabili: l’apertura, “Maps”, retta e decisa nella sua estrema fragilità, “Away”, con cui trasmette appieno la sua libertà di espressione, canzoni mai totalmente cantate e brani mai totalmente strumentali, e la chiusa, “At Dawn”, sfumando quieto e multiforme (non più solo funereo, anche un po’ sinistro) con cui chiude in bellezza un disco mai accaduto. Riesce dove fallisce la tarda Grouper pianistica. Sembra non faccia niente, però è grande. Seguito della colonna sonora per “Inflame” (2017) del compaesano debuttante Özçelik, con cui entra ufficialmente nella rinomata Helen Scardale di Jim Haynes, invero un lavoro minore viste le sue doti d’atipica triste lirista. -- Michele Saran